Cultura dei nativi americani
venerdì, 18 aprile '25
Indiani ricchissimi e poveri indiani
Pubblicata sabato, 6 ottobre '12
È tutta una questione di terra. La terra è sacra per gli indiani d’America. Pare un luogo comune da western d’accatto. Ma invece è la cosa più importante per capire la loro economia e sulla loro vita.
Non è soltanto una questione spirituale, un atavico ricordo di una cultura già morta su cui il senso di colpa di un Paese esercita un tardivo accanimento terapeutico. Il legame con la terra è storia e attualità, è una risorsa o una condanna, a seconda dei casi, e ancora oggi disegna la vita di un popolo col vizio della memoria lunga. La prova? Bastano due cifre: 48,3 e 99,2%. Il primo è il tasso di povertà tra i Lakota Oglala (meglio noti come Sioux) che vivono nella riserva di Pine Ridge, South Dakota, il secondo è il tasso di disoccupazione tra gli Shakopee Mdewakanton, tribù del Minnesota. Ma dietro le due cifre ci sono mondi opposti.
«La disoccupazione degli Shakopee», aveva spiegato al New York Times, Stanley R. Crooks, presidente della tribù morto nello scorso agosto a 70 anni, «è interamente volontaria».
La povertà diffusa tra gli Oglala è invece l’ultima eredità di una lunga storia di sangue e tradimenti.
Disoccupati che guadagnano 84 mila dollari al mese
Gli Shakopee sono stati perseguitati e sterminati, tanto che oggi ne rimangono 480. Ma il loro reddito pro capite più che da indiani è roba da sceicchi arabi: 84.000 dollari al mese, cioè più di un milione l’anno di rendita che incassano senza esser costretti a lavorare. Nel mosaico delle 500 tribù dei nativi americani, sono quelli che hanno cavalcato con maggior successo il business del gioco d’azzardo, aprendo una sfilza di casinò sulle proprie terre. Un affare iper-redditizio, soprattutto perché con scarsa concorrenza: la maggior parte degli Stati americani vieta i casinò. Ma gli Indiani non sono tenuti a rispettare le leggi statali: ogni tribù che compone la cosiddetta Nazione Indiana, è considerata un governo autonomo, uno status frutto di 150 anni di storia, di tormentati rapporti con Washington, dei trattati e di una legislazione che ha avuto una svolta negli anni ‘70 con “l’american indian self determination act” e “l’american indian religious freedom act”.
Ma è anche uno status problematico, che continua ed evolversi: solo nel 1990, ad esempio, una legge federale ha previsto la tutela del marchio “indian made”, riservandolo alle tribù. Le norme però non bastano a correggere la roulette della storia: i “pellerossa” oggi sono tra i 4 e i 5 milioni, meno dell’1,5% della popolazione degli Stati Uniti, e posseggono il 2% della terra: sembrerebbe un approdo equilibrato dopo lo sterminio seguito alla colonizzazione della Frontiera. Gli Stati Uniti però sono un Paese dove lo spazio abbonda, ma la terra non è tutta uguale. Agli Oglala, per esempio, il trattato di Fort Laramie del 1868 garantì il possesso delle Black Hill, le colline che loro considerano il centro della propria spiritualità. Ma meno di dieci anni dopo lì fu scoperto l’oro e quelle terre furono confiscate. Da allora la tribù non ha mai smesso di lottare per riaverle e nel 1980 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto il diritto a un risarcimento. Oggi ammonterebbe a qualcosa come un miliardo di dollari, e gli Oglala (benché nella riserva il reddito medio sia di 9.728 dollari l’anno) non l’hanno mai accettato: rivogliono la propria terra.
L’indiano che coltivò canapa nella fertile terra dei suoi avi
Quelle colline oggi sono un parco che comprende il Monte Rushmore, l’altura sulle cui rocce sono scolpiti i volti di George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abramo Lincoln. Un simbolo dell’America visitato ogni anno da tre milioni di persone.
«I volti dei presidenti della nazione che ha violato tutti gli accordi con il mio popolo sono scolpiti nel nostro luogo più sacro», ha spiegato al National Geographic l’attivista indiano Alex White Plume: è la forma plastica di una ferita collettiva. Ma la storia è come quelle rocce: non si cancella, al massimo si può provare a dimenticare. Solo che non si tratta solo di ricordi.
Nemmeno per il Paese che ha insegnato al mondo cos’è l’amalgama delle culture, convivere con 565 governi indipendenti al suo interno, tanti quante sono le tribù riconosciute.
Nel 2000, la famiglia di White Plume ha piantato mezzo ettaro a canapa industriale, vietata dalle leggi americane. E la sovranità degli Oglala non ha impedito un blitz degli agenti antidroga della Dea.
L’indiano che scoprì il petrolio nella terra sterile dell’Oklahoma
Molte tribù furono scacciate dalla propria e in seguito gli vennero concesse riserve che comprendevano suoli improduttivi, quasi sempre isolati. In seguito altri terreni sono stati concessi dal governo con atti di riparazione. La storia poi ha dato le sue carte. E a qualcuno è pure capitata la mano fortunata. È il caso di Thomas Gilcrease, nato nel 1890 da una famiglia umile che, quando lui aveva nove anni, scoprì nel proprio sangue misto irlandese, scozzese e francese anche un quarto di discendenza dagli indiani Creek.
Quanto basta per ottenere in seguito l’assegnazione di una quota di terre indiane nell’Oklahoma. Quei 160 acri distribuiti come scartine si rivelarono un poker d’assi nel 1905, quando nella zona si scoprì un vasto giacimento di petrolio. Thomas Gilcrease divenne ricco e iniziò a collezionare opere d’arte dei nativi e testimonianze della storia del Far West, mettendo insieme una collezione unica in America che trasformò in un museo a Tulsa. Negli anni ‘50 però la sua attività estrattiva entrò in crisi e si ritrovò con un pesante debito da pagare che lo avrebbe costretto a restituire o vendere gran parte dei pezzi della sua collezione, se gli abitanti di Tulsa non si fossero resi conto di quale patrimonio quel museo costituiva per la città. Così la comunità lanciò un bond e raccolse 2,5 milioni di dollari per pagare i debiti del petroliere. Gilcrease ne fu colpito: quattro anni dopo cedette alla città e all’Università di Tulsa il museo, ancora oggi tra le maggiori testimonianze della vita della Frontiera americana, e si incaponì per ripagare il bond, obiettivo che la sua famiglia perseguì anche dopo la sua morte, nel 1962. Ci sono voluti altri vent’anni, ma il debito è stato cancellato.
Non vogliono case, ma auto potenti come i mustang di Toro Seduto
Fino all’arrivo degli europei, gli indiani erano nomadi e non avevano il concetto di proprietà privata, e tracce di un rapporto con i soldi diverso da quello “dell’uomo bianco” persistono ancora. Agli Oglala Sioux la mano giusta non è mai stata servita: l’alcolismo è una piaga che li perseguita e il tasso dei suicidi è tre volte più alto della media nazionale.
Altre tribù hanno trovato il loro petrolio con il gioco d’azzardo, un business che vale 24 miliardi di dollari. Ma chi vive in terre troppo isolate non ha fatto davvero fortuna: i casinò sono l’unica risorsa per pagare i servizi sociali alla tribù e l’unica fonte d’impiego. E per queste tribù il giro giusto della roulette sembra prossimo a finire: la crisi fa crescere la fame di introiti delle amministrazioni statali. Solo nell’ultimo anno, Maine, Ohio, Kansas e Pennsylvania hanno deciso di dare il via libera all’apertura di casinò. E la concorrenza passa anche da internet: molte amministrazioni ora puntano sulle tasse che possono ricavare dando il via libera al “gambling on line” e per scommettere sul web non serve andare in una riserva.
Su questo punto già si profila l’ennesimo scontro di sovranità. Gli Stati vorrebbero tassare anche chi gioca su siti web gestiti dagli indiani.
Il business degli Shakopee è talmente ben avviato che non è a rischio immediato, anche se pure loro non nascondono preoccupazioni. Con i loro immensi guadagni non vivono di certo nei “teepee” ma quasi nessuno ha comprato grandi case, mentre quasi tutti hanno auto potenti come i purosangue dei propri avi. Per i singoli individui ormai la sopravvivenza è più che assicurata. Anzi, gli anziani si pongono il problema di come insegnare un corretto rapporto col denaro ai giovani di una comunità che non ha mai avuto bisogno di lavorare per vivere.
Se il fiume di incassi dei casinò si inaridisse, però, i servizi sociali potrebbero risentirne. E sarebbe un guaio per gli Shakopee che hanno continuato a vivere come una comunità e a seguire il proprio istinto. Compreso quello di restituire parte della propria fortuna: negli anni hanno donato centinaia di milioni alle tribù più povere, superando nella classifica dei benefattori tutte le grandi aziende del Minnesota, anche se loro, in quanto governo autonomo, non pagano tasse e dunque non ricevono sgravi grazie alle donazioni.
Anche questo è un modo di restar fedeli alla propria cultura, nonostante i capricci della storia. Gli Shakopee lo sanno che, in fondo, è tutta una questione di terra.
Autore dell'articolo:
Giuseppe Marino